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intervista

Liberi come Epicuro. Giulio Lucchetta: "Saremo ancora umani o diventeremo terminali viventi dei nostri smartphone?"

13' di lettura
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di Netanya Primicino Coen


Il professore dell'Università di Chieti Giulio Lucchetta parlerà a "Liberi Come Epicuro, secondo festival Epicureo" giovedì pomeriggio, nel corso dell'evento: "Vivere, Morire, Ridere" che si terrà dalle 18 alle 20.

Nel tuo libro “La salvezza della città”, realizzato assieme a Maurizio De Innocentiis, parli di tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei cittadini per una buona politica, proponendo anche i temi dell’ideale di una cittadinanza consapevole e attiva. Pensi che oggi manchino la consapevolezza e l’educazione?

Ho la fortuna (?!) di poter mantenere con una certa frequenza contatti professionali con i giovani, non solo universitari ma anche frequentanti licei o scuole superiori grazie allo stretto rapporto con docenti sparsi nel territorio e così ho potuto accorgermi dello svantaggio di queste generazioni che, forse rinnovando un’abitudine atavica coltivata in famiglia oppure adeguandosi alla mentalità in voga negli ambienti della movida, lasciano fare politica ai politicanti, disinteressandosene nel modo più assoluto. Lo spazio mentale è attratto piuttosto da altri mondi, non ultimo quello virtuale; infatti l'aura tecnologica in cui siamo immersi facilmente li aggancia e li assorbe completamente nella dimensione dell’idios logos che assolutamente amplifica e surrettiziamente dilata il discorso privato di cui parlava Eraclito (sogni, sentimenti, radicate convinzioni personali, paure, inconscio, desideri e rancori), tralasciando del tutto il koinos logos, quello di interesse pubblico e che ci mette in relazione con la comunità tutta, progettandone il futuro. Attraverso pratiche telematiche di auto-isolamento consolatorio, finiscono con l’essere demotivati a cambiare le cose che non funzionano; è sufficiente ignorarle e rimuovendole dal proprio sguardo o dal proprio display. Viene così meno quell’apprendistato alla politica come dimensione umana proiettata a migliorare le condizioni del presente in vista del proprio futuro, da realizzare in armonia con quello degli altri; a questa pubblica condivisione con la comunità, non virtuale ma quella ancora primordiale dei viventi che ci circonda, eravamo interessati noi quando ancora non ci competeva. Non voglio fare del reducismo (sessantottino), perché si potrebbe dire che anche all’epoca nostra si sono toccate punte estreme di inautenticità, forse per l’esasperante indifferenza della “palude” o per la pochezza dei nostri programmi durati una stagione sola; così poco si è concluso. Ma ciò che allora si è introiettato è che “fare politica” è un modo di prendere consapevolezza delle potenzialità della cittadinanza attiva; ora che tale possibilità sembra essere aperta a tutti, paradossalmente viene negletta. Se allora si faceva divieto agli insegnanti di fare politica in classe, per timore della propaganda ideologica pseudo rivoluzionaria, il risultato è di aver incrementato il luogo comune che la politicizzazione della nostra azione nel mondo sia cosa disdicevole o quanto meno sconveniente; ciò ha portato al trionfo dell’analfabetismo rispetto alle stesse funzioni del cittadino “attivo”, fino a ignorare quali siano queste funzioni e che uso farne.

Paradosso per paradosso, dovremmo quindi riportare la politica nelle classi per attrezzare in tal senso le future generazioni? E la novità sorprendente è che in questo periodo condizionato dall’incombenza del corona virus: agli esami di maturità si è deciso di far portare agli studenti un articolo della Costituzione da commentare, fatto che ha suscitato in loro grande adesione. Per la stessa ragione ogni anno conduco uno dei due corsi che tengo all’università su temi squisitamente politici: si tratta pur sempre di analizzare i rapporti con il potere, gli spazi della democrazia, le forme subdole dell’antidemocrazia e le tecniche di esclusione delle minoranze, mettendo in evidenza, in ambienti geograficamente e storicamente diversamente definiti, i criteri per conseguire una cittadinanza e le regole per conservare la dignità umana. In realtà e con le debite ambientazioni, i problemi nei rapporti umani dovuti alla convivenza della moltitudine nello Stato si riaffacciano in modo analogo, pur nel variare delle strategie per conseguire il dominio, degli strumenti della propaganda per assicurarselo e delle forme del dissenso per rovesciarlo. Un esempio di questo dialogo, che definirei interepocale, lo offre Karl Marx, che non poteva fare a meno di sintonizzarsi sui testi di Aristotele relativamente ai problemi economici che avvelenavano e avvelenano la società nel pretendere di renderla una entità omogenea e organica alla crescita delle ricchezze, magari trascurando, in nome di un vago benessere diffuso, la felicità dei singoli o dei più deboli.

Tutto questo preambolo è per risponderti “sì”: sono convinto che le generazioni che abbiamo cresciuto siano sempre più disarmate e socialmente inattive non perché più stupide o incapaci, ma perché le abbiamo distolte o persino bandite dall'uso della politica. Temendone l'abuso, in cui siamo incappati noi, li abbiamo privati della dimestichezza al vero esercizio “in proprio” della politica, anche solo come orizzonte del pensiero e dell’azione nella quotidianità. Si è in qualche modo impedito che i giovani ne facessero reale esperienza acquisendo un’autonoma consapevolezza, subentrando con canali educativi spesso limitanti: ora ingessandoli per partecipare alle commemorazioni pubbliche ufficiali che permettono alle vecchie generazioni (di cui faccio parte) il monopolio della memoria politica; oppure limitandone il libero e personale giudizio forzandoli a canalizzare un “mi piace” o un “non mi piace” attraverso quelle forme di burocratizzazione introdotte nella scuola come funzioni di rappresentanza politica a cui affidarsi inderogabilmente e spacciate come apprendistato di “democrazia”. Ciò che abbiamo impedito loro è di fare esercizio dello sguardo politico prendendo familiarità e magari piacere a far uso della facoltà del giudizio critico su fatti, cose e persone; li abbiamo così lasciati preda di imbonitori mediatici che vedono, parlano e giudicano al posto loro, imbottendoli di fake news, affascinandoli con slogans banali, aumentandone la passività che li porterà alla fine a dare un voto “chiudendosi il naso” (immagine emblematica coniata alle origini della nostra breve vita democratica) o a consegnarsi mai e piedi a un ribellismo qualunquista, cupo e deluso e perciò nihilista, irriducibilmente autodistruttivo , nonostante le più buone intenzioni iniziali.

Penso che il compito dell’insegnamento pubblico sia non solo avviare i giovani all’autonomia economica entrando a far parte dell’apparato produttivo, ma sia anche quello di educarli a essere cittadini completi e consapevoli, cioè capendo cosa siano giustizia sociale, dignità economica e libertà politica, spronandoli a darsi da fare a coltivare se stessi per ottenere, esercitare o per salvaguardare simili garanzie democratiche. Nella società odierna, come in quella antica, queste condizioni non sono garantite da nessuno e certamente non riguardano tutti; invece in una società democratica dal mirare a queste non ci si può mai distogliere, distraendoci o abbassando la guardia, perché l’alternativa è diventare terminali viventi dei propri cellulari, iPhone o Android; soluzione finale ora più che mai pericolosamente a portata di mano in era di distanza sociale e di video-didattica. Tali giocattolini telematici che garantirebbero certo all’economia globale piena salute e un commercio facilitato, mentre ai governi assicurerebbero il controllo totale su quello che i cittadini-sudditi tra loro si comunicano, non entrano a casa mia, come non entrarono in quelle di G. Orwell e Philip K. Dick.

Credi che la tua partecipazione a questo festival possa contribuire ad una maggiore diffusione di consapevolezza politica?

Il mio modo di interpretare la filosofia epicurea è del tutto personale, ma riflette questa mia considerazione sull’educazione globalizzata, funzionale allo sviluppo di interessi che travalicano il soggetto umano. Forse in Epicuro e nel suo insegnamento la divaricazione tra sfera della natura e sfera antropologica raggiunge la più ampia divaricazione, portando a una differenziazione di metodi di analisi e al rilevamento di causalità e di finalità nettamente diverse, per cui l’uomo, se vuole interessarsi all’uomo, deve partire dalla realtà antropologicamente più vicina anche se più effimera, dall’immediato senza contare sulla sua persistenza, da ciò che ci è più vicino, dai sentimenti più elementari e concreti che condiscono la quotidianità di ogni umano, come, appunto, amicizia e felicità, perché ciò che avviene nella realtà naturale e celeste non ci spetta né ci riguarda.

Ha senso affrontare questa tematica proprio ad un festival epicureo?

Il festival dovrebbe poter celebrare questa nuova forma di umanesimo minimale ma sostanziale che ancora oppone resistenza all’innovazione dei tempi, ponendo in risalto il fatto che forse non rispettandola, la politica si realizzerebbe sul popolo e non ad opera del popolo. La confidenza con i massimi sistemi ci ha portato diritti alla globalizzazione e di questa ne ha subito approfittato un piccolo virus per diventare immediatamente diffuso e mostruosamente pericoloso. Siamo noi adatti a questa dilatazione degli spazi o a questo annullamento dei tempi a cui la “grande macchina” dell’informatica ci sta obbligando? Saremmo ancora “umani” dopo, o cambierà di significato questa parola?

Parlando di Aristotele, hai sintetizzando le sue parole con le testuali: “Il politico esercita il proprio potere per danneggiare gli altri”. Tu cosa ne pensi al riguardo?

Dovremmo capire quale sia nel modo più sintetico per Aristotele il compito del politico. E Aristotele prende a prestito un’affermazione - “perseguire il bene degli altri” - che Platone mette in bocca a Trasimaco per ridicolizzare l’ingenuità degli onesti. Ora il cattivo (forse è meglio dire il disonesto) politico è tale quando nell’esercizio del suo ruolo politico mira esclusivamente ai propri interessi. Ma alla disonestà non ci sono limiti di sorta, poiché il politico che nella pubblica opinione si ritiene “capace” (secondo l’acuta e circostanziata analisi di Trasimaco) è quello in grado di farsi valere proprio perché sa come danneggiare gli altri alla grande, facendone un sistema di intimidazione funzionale al conseguimento di un potere personale, prendendo a prestito tecniche consolidatesi in altri campi, quelli malavitosi, come la truffa, il ricatto e l’aggiotaggio. (Stiamo parlando di Atene, rammento!)

Parli della Shoah e del Nazismo come riproposta dello sfruttamento schiavistico e come un rinnovato colonialismo. Credi che questo fenomeno sia ancora presente nel mondo, anche sotto altre forme?

Certo, tutto sta a riconoscerne per tempo trasformazioni e sfumature, cioè prima che prendiamo gusto a sfruttarne i vantaggi; Shakespeare e Conrad, in anticipo sulle rispettive campagne di colonizzazione, ne avvertivano il puzzo! Ma la pista che sto seguendo ultimamente mi sta portando a rintracciarne episodi significativi (vedi domanda 7).

Hai affermato che gli ebrei sono stati sterminati nei campi di concentramento perché ci si è organizzati per ucciderli in maniera indolore per le truppe. Che cosa intendi di preciso?

Intendo qualcosa di simile a quanto è già stato detto sulla banalizzazione del male fin dalla Arendt. Le truppe tedesche d’invasione impiegate a Est, ufficialmente per liberare le minoranze di lingua tedesca ma di fatto per rendere schiavi tutti i popoli slavi, dovevano poter dormire alla notte per condurre con efficienza una veloce campagna di guerra; invece perdere tempo per massacrare in massa innocenti che non opponevano resistenza poteva togliere il sonno ad autentici combattenti come quelli della Wehrmacht e far nascere in loro scrupoli o interrogativi poco opportuni. Non sono io a dirlo, ma è ciò che viene dichiarato nella Conferenza del Wannsee, riportando il contenuto dei rapporti degli ufficiali di stanza a Belgrado impegnati nell’eliminazione di zingari ed ebrei, al fine di obbligare le autorità militari lì convenute a cercare modalità per attuare uno sterminio di massa sostenibile, rapido ed efficace. In Shoah e Schiavitù (Carabba 2011) ho tentato di leggere tutto il progetto nazista come una distopia (o utopia, per casa Pound) secondo un disegno di efficientismo statale che riesce a trarre una funzionalizzazione economicistica dalla soppressione di un nemico interno: così adottando lo slogan dello spazio vitale per la minoranza tedesca si giunge a togliere lo stato di cittadinanza a una parte della popolazione. In un sol colpo si esce dalla crisi economica che affliggeva la Germania, perché con la deportazione forzata dei non ariani vengono liberati per i tedeschi appartamenti, posti di lavoro, e dirigenze e proprietà di imprese e industrie. Dall’altra, e proprio al fine di attuare il rilancio dell’industria chimica i cui processi di lavoro risultavano letali per le maestranze tedesche, ci si ritrova, guarda caso!, con una considerevole massa di manodopera a perdere concentrata nei campi di deportazione e a completa disposizione, perché ormai senza nome e dignità umana. Il modello economico capitalistico realizzato da una tale Macchina-Stato (Leviatano?) assolutamente autarchica e autosufficiente, priva di una qualsiasi dispersione di fondi finalizzati al bene degli altri, risulta alettante perché a costo zero. Potrei dire che è un risultato decisamente in anticipo sui tempi, forse troppo; ma, con più rassegnazione e paziente pianificazione, ci stiamo arrivando grazie a crisi pilotate e a pandemie mal gestite.

Dopo tutti questi anni e queste tragedie da cui l’uomo sembra non imparare, credi che la storia riuscirà mai a smettere di ripetersi? Hai scritto molti libri, ce n’è uno che ritieni più importante o a cui sei più legato e perché?

Potrei dire che ritengo importante il traguardo a cui di recente sono arrivato seguendo traiettorie differenti ma convergenti. Una è delineata in un recente volume a cui ho solo partecipato, ma di cui sento di potermi attribuire la regia; l’altra è disseminata in una serie di articoli, preludio a un lavoro più completo (?!). Ambedue tematizzano il processo di disumanizzazione, spesso ricorrente nella storia dell'umanità.

Il volume in questione, Lo sguardo di Calibano. Studi per una semeiotica post-coloniale, a cura di G. Grimani e G. A. Lucchetta (“Itinerari”, Mimesis, Milano-Udine 2020) raccoglie i lavori di un seminario che ho guidato sull’immagine del colonizzato, più o meno “liberato”, coniata nel mondo antico, riverberato in Shakespeare, cogliendo il clima aurorale della colonizzazione inglese in America, per essere poi rivista e tematizzata come icona di quel “complesso di Prospero” che nell'ideologia colonialista attanaglierebbe Calibano, criticata da autori contemporanei come Fanon, Todorov e Retamar, fino a giungere al tema della liberazione dalla soggezione/emarginazione che ha animato l’attività psichiatrica di Basaglia.

La serie di articoli a cui mi riferisco riguardano invece l’interpretazione del tema della prassi in Aristotele e trova il suo punto focale nella lettura critica di Rodolfo Mondolfo, vostro concittadino, che seppe riconoscere nei testi aristotelici descritta e paventata la prassi disumanizzante del lavoro che in Atene era arrivato a uno sviluppo d’impresa tale da poter alienare dalla partecipazione al genere umano barbari, schiavi e operai, in ragionata e programmata progressione.

Di cosa ci parlerai il 23 luglio al Festival Epicureo?

Prenderò lo spunto da un rilievo polemico di Plutarco per tracciare una deriva polemica sull’applicazione dell’immaginario omerico in Epicuro: mi limiterò a vederne lo sviluppo nello pseudo-Eraclito, il retore, per cogliere le conseguenze dalle sue curiose annotazioni sulla differenza del riso in chi ascolta le scorribande degli dei e negli stessi dei.



Questa è un'intervista pubblicata il 06-07-2020 alle 09:49 sul giornale del 07 luglio 2020 - 806 letture