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Essere CODA: intervista a Vanessa Stizzoli

8' di lettura
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di Michele Peretti
redazione@viverefermo.it


Coda (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.

Vanessa Stizzoli è nata a Torino il 15.05.1994 da genitori sordi. Diplomata al liceo scientifico, ha conseguito la laurea di primo livello in Logopedia presso l’università degli studi di Torino con una tesi che ha coinvolto genitori sordi con figli sordi. Ha indagato come i trascorsi riabilitativi delle famiglie potessero influire nel percorso riabilitativo attuale del loro figlio sordo per poter ricercare le migliori strategie di counseling. Attualmente sta frequentando il Master universitario di primo livello in Neuropsicologia dell’Età Evolutiva e collabora con il Centro Audiologopedico dell’Istituto dei Sordi di Torino dove si occupa di differenti laboratori di comunicazione con bimbi, ragazzi e adulti sordi con sordità complesse e delle differenti casistiche dell’età evolutiva.

1. Cosa significa per te essere CODA?
Ho incontrato di recente una ragazza sorda che, citando il romanzo fumetto di Cece Bell, mi ha detto: “altro che supersorda, siete voi i supereroi, superCODA”. Ho sorriso e riflettuto su cosa significasse davvero per me quell’affermazione. Non mi sono mai sentita particolarmente “speciale” né una supereroina. Perché sin dall’infanzia avrei dovuto immaginarmi diversa dai miei coetanei? Tuttavia crescendo ho preso consapevolezza della grande ricchezza che ho. Essere CODA è per me una ricchezza: ricchezza di comprendere e comunicare in due lingue, ricchezza di conoscere e muovermi in due differenti culture e apprendere da ognuna di queste, ricchezza della sensibilità e dello spirito critico che ho sviluppato, ricchezza di pensieri, idee e attenzioni.

2. Come e quando sei stata esposta all’italiano?
Sono stata esposta all’italiano fin da subito poiché i miei nonni paterni e materni erano udenti e anche mia sorella maggiore lo è. Inoltre mia mamma, anche se sorda profonda segnante, ha una buona competenza nella produzione in lingua italiana orale perciò fin da subito sono stata immersa nel bilinguismo.

3. A scuola ti sei mai sentita diversa dagli altri?
Nella tenera infanzia sinceramente no. Avevo forse davvero la convinzione che tutte le famiglie segnassero o che il mondo di ognuna di queste non fosse diverso dal mio e da quello dei figli udenti degli amici sordi dei miei genitori con i quali trascorrevamo insieme le vacanze o la domenica pomeriggio all’ENS. Giunta alle elementari, mi sono stupita che i miei compagni non si relazionassero al telefono con il concessionario, l’idraulico o con il commercialista sin dai tre anni di età, né che accompagnassero i genitori dall’agente immobiliare e facessero da interprete in diverse situazioni. Forse solamente crescendo mi sono davvero resa conto della diversità che mi contraddistingueva dai miei coetanei. Eppure è una diversità positiva, che non mi ha mai posto dei paletti nell’approccio con gli altri, bensì mi ha fatto comprendere a fondo quanto fosse difficile per i miei passare i pomeriggi a casa dei compagnetti o invitarli a casa nostra perché era difficile comunicare con loro o con i genitori. Con il senno di poi questa “normalità” forse un po’ mi è mancata.

4. Cosa apprezzi delle due culture e cosa invece ti piace meno?
Crescere nel mondo degli udenti ti permette senza dubbio di avere un’accessibilità comune: informarti, formarti, trovare un lavoro senza pensare. Forse però non è un mondo così accessibile. Una volta sono stata costretta a rivolgermi a una farmacia vicino a casa che faceva il turno di notte. Le saracinesche erano chiuse e si comunicava attraverso un citofono. Le medicine venivano consegnate mediante uno sportellino metallico che si apriva e chiudeva a comando. Mi sono chiesta: i miei come avrebbero fatto? E le stesse domande me le pongo quando al ristorante chiamano il tuo ordine urlandolo tra i tavoli o cose del genere. Crescendo udente ho avuto la fortuna di potermi muovere senza alcuna difficoltà in questo mondo. Eppure mi sono accorta di quanto ci sia ancora da fare affinché nessuno resti escluso. Sarei ipocrita ad affermare che non mi è mai pesato fare da interprete in situazioni scomode o dopo giornate pesanti in cui i miei avrebbero potuto cavarsela anche da soli. Ciò nonostante non posso far finta di dimenticare le difficoltà che incontrano quotidianamente. Capita che alcuni tentino di approfittarsi di loro o che non comprendano quanto una spiegazione data in fretta e con poca cura possa portare a delle incomprensioni.

5. Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)?
Senza dubbio, come accennato prima, direi una grande ricchezza comune a tutte le persone bilingui. Tra i principali benefici di questa bellissima fortuna c’è quello di aver maturato una profonda sensibilità. Un’attenzione particolare al mondo che ci circonda e ai fatti che accadono intorno a noi, un’accurata ricerca delle parole o dei segni per trasmettere ogni dettaglio. Laddove non arrivano le parole, ecco che intervengono i segni a descrivere la realtà alla perfezione e con le più belle sfumature.

6. C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi?
Tra i ricordi più belli che ho della mia infanzia ci sono numerosi pranzi e cene. Quando i miei rincasavano dal lavoro, mi trovavano pronta a chiedere loro i segni di alcune categorie in cui mi sentivo insicura: nomi di città, alimenti. Loro mi dicevano la parola e io mostravo tutta orgogliosa il segno corrispettivo o viceversa. Intanto cercavo di seguire il loro “movimento agile, profondo, sottile” e chiedevo di ripetermi tutto più lentamente perché non volevo perdermi alcun dettaglio delle conversazioni. Penso che ogni tanto fossero proprio stremati!

7. Perché hai scelto di diventare logopedista?
Le attività di chi opera in ambito educativo-socio-sanitario sono da intendersi come professioni di aiuto, pertanto il primo pensiero che salta alla mente è quello “sei cresciuta trovandoti spesso in situazioni che richiedevano il tuo aiuto, è comprensibile che tu potessi scegliere questo percorso di studi”. Sì, probabilmente è vero. La motivazione che spinge a dedicarsi al prossimo è sempre dettata dall’amore, dal dare senza l’esigenza di ricevere. Questo è stato l’insegnamento fondamentale che mi hanno trasmesso soprattutto i miei nonni e che cerco di non dimenticare mai. Non so perché ho scelto proprio la Logopedia come corso di studi, certamente non per lavorare prettamente con la sordità. Ero a conoscenza dei vari ambiti riabilitativi di intervento e tutti mi affascinavano. Ora sto cercando di specializzarmi sulla valutazione e il trattamento dei disturbi del neurosviluppo, ma non riuscirei a tener fuori il mondo della sordità.

8. LIS: lingua o metodo?
Sicuramente in primis LINGUA. È la lingua della mia infanzia, dei primi giochi, dei primi libri letti e tradotti dai miei genitori, dei racconti a tavola, delle prime discussioni con loro, del mio quotidiano ancora attuale quando li incontro o quando condivido momenti con i loro amici o conoscenti. È diventata METODO per me solamente con lo studio, con la consapevolezza maturata di poter utilizzare i segni nei contesti riabilitativi con le sordità. In accordo con le famiglie e i professionisti, viene richiesto magari un intervento bilingue o bimodale, idem nei laboratori che ho il privilegio di svolgere con ragazzi e adulti con sordità complesse. Non dimentichiamoci che la LIS può essere di ulteriore supporto nell’acquisizione delle competenze comunicativo-linguistiche. Può incrementare e rafforzare le abilità di linguaggio emergenti e, nei casi più complessi, offrire la giusta strategia per comunicare: uno degli aspetti primari e fondamentali nella vita di ognuno.

9. Quale futuro per la LIS nell’era dell’impianto cocleare?
L’Italia è l’unico Paese in Europa in cui la Lingua dei Segni non è stata ancora riconosciuta. Il mio punto di vista, da logopedista figlia di genitori sordi segnanti, è quello di un futuro dove il progresso medico-scientifico non escluda il diffondersi di una vera e propria lingua. Ma questo forse potrebbe accadere solamente se la LIS venisse riconosciuta come tale, se fossimo tutti consapevoli che è una LINGUA e non un linguaggio. Padroneggiarla o essere inseriti in un contesto che ti permette di utilizzarla e potenziarla non significa precludere la possibilità di sopperire al danno uditivo con un impianto cocleare. E viceversa per chi è impiantato: perché non utilizzare questa lingua a supporto dell’acquisizione del linguaggio o anche solamente per una ricchezza culturale propria?

10. Qual è il tuo motto?
Non so se ho un vero e proprio motto che ho fatto mio nel corso del tempo. Vorrei però riportare una frase di Pino Roveredo, uno scrittore CODA. Appena letta l’ho sentita subito mia: “La devo a voi questa passione, a voi che mi avete insegnato la forza straordinaria del silenzio prima che il fastidio del rumore, così che ho potuto iniziare a scrivere all’età di due anni, e senza penne o matite ma grazie al movimento straordinario delle mani dentro alla lingua dei segni. Un movimento agile, profondo, sottile [...]”.



Questo è un articolo pubblicato il 23-02-2020 alle 14:56 sul giornale del 24 febbraio 2020 - 2961 letture